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Intervista esclusiva con Marisa D’Andrea
CONVERSAZIONE CON MARISA D’ANDREA
Intervista a cura di Laura Ceccarelli e Laura Pompei


D. Cara Marisa, ci vuole raccontare le sue origini?
R. Sono nata a Roma e da bambina ho vissuto nella zona di Porta Pia, a via Ancona. In quel periodo ci si conosceva tutti tra vicini di casa, quasi fosse una grande famiglia allargata. Quando da bambina mi chiedevano cosa volessi fare da grande, rispondevo: la portiera. Era il mio sogno. La mia già vivida immaginazione era, infatti, colpita dalla portiera del palazzo, dove abitavo: aveva la guardiola con una finestrella piccola piccola e quando la chiamavano lei si affacciava da questa finestrella e parlava con tutti… Trascorreva i suoi pomeriggi seduta fuori, su una seggiola “romana”, con un gatto acciambellato sulle ginocchia… Poi col tempo è subentrata un’altra aspirazione. Viveva lì nel quartiere un uomo che andava in giro con cinque o sei cani randagi, portando sulle spalle diverse scatole di cartone. La sera si andava a riparare in un portone di via Nomentana e trasformava ogni scatola in una cuccia per ciascun cane. Per me quello era proprio l’ideale, vivere libera e avere sei, sette cani… ma poi la vita mi ha portato in un’altra direzione… Ma di cani ne ho avuti tanti, e ogni volta che ho comprato una seggiola, era una seggiola “romana”, e su una seggiola c’è sempre stato un gatto….

 

D. E qual’era il suo back-ground familiare?
R. La mia era una famiglia di piccoli commercianti: mio padre aveva una macelleria, quindi non provengo da un ambiente artistico. Tuttavia sin dalle elementari mostrai di essere molto portata per il disegno, anche se successivamente ho trascorso anni di ribellione adolescenziale e un anno sono riuscita addirittura a prendere 3 in disegno!
Mia madre non era assolutamente d’accordo che continuassi a studiare, all’epoca per le donne si profilava un destino da brave mogli e madri, e venivamo allevate per diventare delle ottime donne di casa… Così, ogni volta che iniziavo un nuovo corso di studi, lei si opponeva. Quando finii le scuole medie decisi di iscrivermi a una scuola artistica e per intercessione di mio padre alla fine riuscii ad andare al Liceo Artistico di via Ripetta… Quello era il momento d’oro: c’erano Renato Guttuso, Giuseppe Capogrossi… tutti grandi nomi.
Finito il liceo, nonostante le resistenze di mia madre, mi iscrissi al corso di scenografia all’Accademia di Belle Arti. Tuttavia mi accorsi subito che non faceva per me.
Nel frattempo avevo conosciuto Gianni Polidori, c’eravamo conosciuti da ragazzi a scuola…
Proprio in quegli anni, siamo nel dopoguerra, riapre il Centro Sperimentale e Polidori si va immediatamente a iscrivere, fa il concorso e mi dice “Vieni anche te, puoi fare la costumista…” non sapevo neanche che mestiere fosse.. E così feci il concorso e fui ammessa, nella giuria c’erano Gino Sensani e Anna Salvatore.
Naturalmente feci questo concorso terrorizzata, pensando che sicuramente non l’avrei passato. Presentai dei disegni fatti addirittura su una carta da parati perché non avevo altro.
Tra i concorrenti ricordo Ugo Pericoli, che era un mio amico di quartiere. Con lui un giorno siamo andati a parlare con Sensani per sapere com’erano andate le nostre prove e Sensani mi disse che ero stata ammessa e che dai miei disegni si capiva che c’era qualcosa, non solo forma… insomma, gli erano piaciuti…Così iniziai a frequentare il Csc, ma poco tempo dopo Sensani morì. Venne sostituito da Veniero Colasanti.

 

D. Ricorda il suo primo lavoro?
R. Il mio primo lavoro è stato un film prodotto dal Csc, Patto col diavolo di Luigi Chiarini (1949).
Andai sul set in Calabria totalmente impreparata; Colasanti che teneva le lezioni, in quel periodo stava infatti lavorando a Fabiola di Alessandro Blasetti (1949), e non aveva tempo di darci indicazioni tecniche… Così la prima cosa che ho fatto appena arrivata sul set in Aspromonte – considerate che la sartoria era in basso e il set in alto – è stata di mandare l’attore vestito in un certo modo, senza mantello, ma ignoravo completamente che la scena fosse legata a una scena precedente e che il mantello doveva averlo indosso… non avevo la minima cognizione del raccordo!
Però per fortuna non mi hanno cacciata via, mi hanno tenuta. Avevano mandato me, Citto Maselli e  Pasqualino De Santis.

 

D. Che ricordo ha del suo docente di costume, Veniero Colasanti?
R. Era una persona molto colta. Pensate che conservo ancora alcuni appunti delle sue lezioni… Ad esempio ci dava un’epoca da approfondire, che so, gli inizi del ‘900, a quel punto ci spiegava tutto, fin nei minimi particolari… Ricordo anche che preparammo dei costumi in miniatura, che sono ancora conservati nelle vetrinette dell’aula di costume. Uno è mio, è un costume rosa del ‘700 …. Lavorai a un testo di Goldoni, lo feci proprio con Colasanti…
Quando ho insegnato al Centro sono sempre andata di pari passo rispetto al lavoro sul testo, si partiva dalla sceneggiatura, insegnavo subito a fare lo spoglio, parlavo dei raccordi e poi in base alla sceneggiatura si cominciava il lavoro di documentazione. Successivamente portavo gli allievi nelle sartorie.
Quello del costumista è un lavoro complesso, per metà artistico e per metà artigianale… e poi hai a che fare con tutti i laboratori, quelli di parrucche, di scarpe, di armature…

 

D. Che tipo di rapporto si instaurava con gli altri colleghi di corso o degli altri corsi al Csc? C’era questo “valore aggiunto” del lavoro di gruppo?
R. Sì, abbastanza, tanto più che andavamo tutti insieme in sala proiezione, poi ci vedevamo al bar che era un punto d’incontro, dove nascevano belle discussioni… si creava molta “fusione”… lo stesso clima che si respirava anche quando insegnavo.
Ho comunque un ricordo del Csc negli anni del dopoguerra come di una scuola molto vivace. Quando ne avevamo la possibilità si andava anche al cinema tutti insieme. Era anche prevista una borsa di studio, mi pare che ammontasse a diciottomila lire.

 

D. Ricorda qualche collega di corso che successivamente si è particolarmente distinto?
R. Ricordo Nanni (Loy), Citto (Maselli), Pasqualino (De Santis), tra gli scenografi Polidori, Bruno Brizzi, Mario Garbuglia….

 

D. Che passioni culturali coltivava all’epoca?
R. Ovviamente il cinema, la pittura, cercavo di andare quanto più spesso alle mostre… Mi appassionavano molto le ricerche per la documentazione dei costumi. All’epoca non era per niente facile trovare libri, foto, immagini utili… Negli anni successivi sono nate tante pubblicazioni soprattutto inglesi, ed è diventato più semplice reperire le fotografie: conservo ancora una bellissima raccolta di documentazione che è una vera e propria biblioteca…

 

D. Ci racconta cosa avvenne subito dopo il diploma al Csc?
R. Andai a fare l’assistente di Colasanti per il film Romanzo d’amore di Duilio Coletti (1950), che si rivelò, per me giovane costumista alle prime armi, un’esperienza positiva. Faceva parte della troupe Gino Brosio, arredatore, un uomo molto simpatico. Brosio mi fece fare anche dei piccoli arredamenti e mi divertii molto.

 

D. Successivamente lavorò anche per “Guerra e pace”…
R. Sì, fui presentata a Maria De Matteis durante la lavorazione di Patto col diavolo. Il Csc mi mandò da questa costumista che all’epoca godeva di un grandissimo prestigio. Lei mi guardò con diffidenza e mi mandò a preparare la documentazione… Trascorsi ben 15 giorni a documentarmi su tutto, comprese le edicole votive, i lumicini… alla fine mi presentai con tutto il materiale che avevo raccolto, ma intanto il film era già cominciato… Però devo averle fatto una buona impressione, perché poi mi ha chiamato a lavorare con lei. Così sono stata la sua assistente per più di tre anni e devo dire che lei mi ha in un certo qual senso “formato” e da lì ho capito come si gestisce il lavoro. La De Matteis è stata importantissima. Con lei ho lavorato a Guerra e pace di King Vidor (1956), a L’arte di arrangiarsi di Luigi Zampa – dove la De Matteis era assistente di Piero Tosi – (1954), e ad altri tre film del regista Carmine Gallone: Casa Ricordi (1954), Casta Diva (1954), Tosca (1956).

 

D. Qual è stato il suo primo film come titolare?
R. Tra i primi film che ho firmato come titolare mi viene alla mente Noi siamo le colonne di Luigi Filippo D’Amico (1956). Ho però dei brutti ricordi di quel periodo. Infatti in serata, appena arrivata a Firenze, mi arrivò una telefonata inattesa: mia sorella mi informava che mio fratello aveva avuto un brutto incidente. In realtà era morto. Feci il film in uno stato di prostrazione, triste e confusa. Considerate che mio fratello era per me come un padre, avendo perso quest’ultimo quando ero molto giovane…

 

D. Nel suo lavoro di costumista, quanto è stata determinante la capacità di rapportarsi con il regista?
R. Va detto che il rapporto con il regista è veramente fondamentale: se è buono tutto è “fluido”, facile, se invece non ti capisce oppure ti chiede una cosa che non è nelle tue corde allora il lavoro risulta stentato, subisce delle difficoltà….

 

D. Può farci qualche esempio?
R. Ottima fu l’intesa con Giacomo Battiato per lo sceneggiato Martin Eden (1979): con lui c’era comprensione totale.
Anche quello con Lattuada è stato un incontro bellissimo… Lattuada sapeva “leggere” i bozzetti.
Ci sono tanti altri registi con i quali ho lavorato bene: Marco Leto, col quale ci siamo sempre capiti benissimo, oppure Dino Risi.
Ho avuto una buona intesa con Andrea Frezza per lo sceneggiato I problemi di don Isidoro (1978) e  con Leonardo Cortese per lo sceneggiato L’Andreana (1982).

 

D. E l’intesa con gli attori?
R. Sono molto concentrati sulla propria immagine che tu come costumista ti trovi a  “scomporre” e non tutti l’accettano… Ma il grande attore no, non crea problemi: ho lavorato con Gassman, gli potevi mettere lo scafandro, denudarlo, lui rispettava tutte le tue scelte, era il tuo lavoro…
Un altro grande che ricordo è Max von Sydow, che mostrava una grandissima professionalità…

 

D. Qual è stata la sua attrice preferita, quella che ricorda con più simpatia?
R. Stefania Sandrelli… che persona simpatica… Abbiamo lavorato insieme nel film D’Annunzio di Sergio Nasca (1987). Stefania è una donna di una simpatia straordinaria, accessibile, è “mascalzona”… si metteva il rossetto di nascosto, le dicevo “non ti mettere il rossetto, non c’entra niente con quello che hai addosso” e lei “no, no, ho le labbra troppo sottili…” e io “e dai, levatelo!”, e lei se lo toglieva, se lo metteva in tasca, ma appena giravo gli occhi se lo passava sulle labbra (mima il gesto) e poi diceva “ma io sto bene così…”. Un’altra persona che ho trovato adorabile è l’attrice Françoise Fabian.

 

D. Ci può parlare delle differenze riscontrate nel lavoro per il cinema, il teatro e la televisone?
R. Tra cinema e televisione ci sono in realtà poche differenze, soprattutto se si gira con la macchina da presa la televisione è esattamente come il cinema. A mio parere entrambi i linguaggi pongono dei limiti al costumista, mentre invece il linguaggio teatrale dà più spazio all’invenzione, consente più libertà creativa. Nel teatro difficilmente c’è il rigore della ricostruzione filologica. Si lavora all’interpretazione di un testo e dunque il costumista può dare libero corso a ciò che gli suggerisce l’immaginazione…
Un’altra grande differenza sta nel fatto che a teatro il lavoro che hai fatto lo vedi alla fine tutto insieme, durante la prova generale: lì tu hai modo, se sei attento, di correggere, di intervenire su alcuni dettagli che magari hai trascurato… Non è come nel cinema, dove vedi solo dei frammenti che via via poi dovrai collegare insieme. In questo senso hai più difficoltà ad avere una “visione d’insieme”…

 

D. Con quali registi teatrali ha lavorato?
R. Ho lavorato molto con Giancarlo Sbragia, che aveva fondato la “Compagnia degli Associati” e mi chiamava spesso; tra l’altro mi propose anche di far parte della compagnia, ma rifiutai.
Con loro ho lavorato, tra le altre, alla messinscena de La cortigiana di Pietro Aretino (1976), dove non realizzai una ricostruzione filologica, ma cercai di inserire nella realizzazione dei costumi come degli “echi”, delle suggestioni visive. Ad esempio c’è un personaggio che sembra vestito come Gioacchino Belli, anche se l’ambientazione della storia in realtà è molto più lontana nel tempo… feci questa scelta perchè Sbragia mi disse “Voglio i vari mestieri di Roma….”
Citando un altro lavoro fatto con la compagnia di Sbragia, La morte di Danton di Georg Büchner (1976), ricordo che dovevo vestire dei personaggi che dovevano “evocare” gli antichi senatori romani. Decisi di non disegnare delle vere e proprie tuniche, ma li immaginai interamente bianchi come statue: il pubblico vedendoli percepiva quest’atmosfera d’antichità romana… Inoltre a teatro il costume viene usato in rapporto ai movimenti scenici del personaggio, acquisendo una sua valenza simbolica molto più forte che nel cinema.

 

D. Ha qualche rimpianto rispetto ai costumi realizzati? Qualche lavoro che avrebbe preferito fosse stato realizzato in modo diverso?
R. Nel complesso ho lavorato sempre bene. Ricordo il film Giovannino (1976) di Paolo Nuzzi come un lavoro complicato, così come la trasposizione televisiva di Cocktail party (1982), dal testo di T.S. Eliot, con il regista Enzo Muzii.

 

D. E qualche importante soddisfazione?
R. Quando ho fatto lo sceneggiato L’Andreana!
Bisogna però tener conto di questo: questo mestiere l’ho amato, ma non è stato centrale nella mia vita, assolutamente no, nella mia vita ho fatto entrare tante, tante altre cose, magari banali, ma per me molto importanti… la famiglia, i figli, il bellissimo marito, un orto, tredici cani, il mare. Quando abitavo in campagna, avevo scelto una casa dalla quale in dieci minuti raggiungevo il mare… C’erano dunque altre cose importantissime nella mia vita. Perciò sì, lavoravo perché mi piaceva molto, però tra un lavoro e l’altro c’era una pausa, perché dovevo vivere, volevo vivere… Non ho rimpianti, ho avuto una vita bellissima.

 

D. Lei è stata la moglie di un grande scenografo, Gianni Polidori. Ci può dire qualcosa di lui?
R. Come scenografo Polidori è stato grandissimo, ma anche come pittore. Ha dipinto tantissimo, però non essendosi sottomesso alla direzione di un gallerista, non esiste come pittore riconosciuto. Ha fatto mostre, ha anche venduto, esistono vari cataloghi con le sue opere, ma non si è affermato come pittore…
Il nostro è stato un lungo sodalizio. Ci siamo incontrati giovanissimi, a diciotto anni, abitavamo nello stesso quartiere… Poi c’è stata la guerra, ci siamo persi di vista, era sparito, pensavo addirittura fosse morto…. Negli anni successivi mentre frequentavo l’Accademia di Belle Arti, fecero un’esposizione di bozzetti e modellini degli allievi del corso di scenografia dell’anno precedente. Tra i tanti lavori ce n’erano due che mi avevano particolarmente colpito: il modellino di una villa veneta e quello ideato per la messa in scena de L’uomo dal fiore in bocca. Un bel giorno entra in Accademia un giovanotto tutto spettinato, Gianni Polidori, e vengo a sapere che proprio i modellini che mi avevano emozionato erano i suoi. Così ci riconosciamo e  ricordiamo di esserci frequentati tanti anni prima, da ragazzini… tra quest’incontro e il giorno che ci siamo separati son passati ventisette anni; abbiamo avuto due figlie meravigliose, Silvia e Carlotta, che si occupano anche loro di scenografia e costume… Gianni era un uomo bellissimo e molto affascinante.
Abbiamo fatto tante cose insieme… abbiamo lavorato a lungo per Squarzina.

 

D. Quanto è importante per un costumista il rapporto con lo scenografo e il direttore della fotografia?
R. Ci deve essere un grande accordo tra tutti i componenti. Prima nel cinema si lavorava molto alla preparazione, era molto importante incontrarsi con lo scenografo e col datore luci. C’era una lunga fase di studio preliminare, durante la quale si preparavano i bozzetti e poi si sottoponevano al regista, col quale nasceva una discussione feconda, ad esempio anche su quali luci dare…

 

D. Ora passiamo a parlare di qualche dettaglio più tecnico del suo lavoro, a partire dall’importanza che riveste la fase di documentazione…
R. La fotografia nasce nella metà dell’800 e il mezzo di rappresentazione precedente è la pittura… è ovvio che un costumista debba sapersi muovere in modo agevole tra le migliaia di immagini di abiti, di ornamenti… nella mia collezione privata il volume più antico contenente immagini di abiti è un libro di moda del 1862, ma lì c’è l’interpretazione del disegno rispetto alla realizzazione reale dell’abito. Si tratta di una differenza enorme, di cui il costumista deve tener conto: quella tra il vestito disegnato e quello realizzato.
Ho amato moltissimo la pittura, e alcuni grandi maestri in particolare, come ad esempio Piero della Francesca, anche se non ho mai avuto occasioni di poterlo “usare”per preparare dei costumi…

 

D. Come si passa alla fase del bozzetto?
R. Si fanno una serie di studi preliminari prima di arrivare al bozzetto definitivo… Alcuni miei bozzetti presentano anche elementi caricaturali… inoltre spesso sono “mossi”, dinamici, perché cerco di entrare nella storia…

 

D. E le tecniche prevalentemente utilizzate?
R. Tempera e china, talvolta anche pastelli, mai gli acquerelli…

 

D. Ci vuol dire qualcosa riguardo ai materiali, all’impiego dei tessuti…
R. La scelta dei tessuti è una cosa fondamentale, perché un costume puoi centrarlo nelle forme, nel taglio, ma se non trovi la stoffa giusta, puoi sbagliare tutto!
Cosa fa il costumista? Va in una sartoria e poi va a fare la campionatura nei negozi di stoffe… andavo spesso nella zona di Largo Argentina, o anche in altri negozi più centrali, vicino a Piazza di Spagna, dove c’era una bottega che vendeva dei tessuti pregiatissimi….
Per quanto riguarda le sartorie ho lavorato con Annamode, con S.A.F.A.S., con G.P.11, con Peruzzi… Però purtroppo non ho lavorato con Tirelli. Come ho già detto ho lavorato molto anche con Annamode, hanno una collezione di materiali stupenda, con pezzi originali veramente introvabili… Con loro ho anche collaborato all’allestimento di una mostra ad Arezzo, nei primo anni del 2000.

 

D. Che giudizio dà della ricostruzione filologica degli abiti?
R. Trovo che talvolta sia un po’ noiosa, ma in alcuni casi assolutamente necessaria. Si lavora sui figurini, bisogna documentarsi con esattezza sul taglio del vestito, perché il taglio cambia l’atteggiamento fisico della figura. Ad esempio, se uno prende il ‘700 c’è un taglio alle spalle fatto in un certo modo… Il costumista deve dunque fare uno studio approfondito dei tracciati dei modelli, io ho passato ore ed ore a disegnarli, mi divertivo tantissimo, poi li mettevo sui manichini…

 

D. E’ pur vero che la forma dell’abito è anche condizionata dalle forme del corpo, che cambiano col mutare delle epoche. Come si fa dunque a risolvere il problema che può porre un corporatura più alta e robusta come quella delle attrici odierne chiamate ad interpretare personaggi vissuti nel ‘700, che invece avevano una corporatura più minuta?
R. Questo è un problema reale… all’epoca le donne avevano spalle piccole, “dolci”… quando ricostruisci devi trovare un po’ di trucco per ridurre un po’ le forme. Ad esempio, se hai le spalle più grandi trovi la soluzione attraverso delle cuciture sapientemente smussate per le spalle, ma non è una cosa semplice… Trovo che un elemento essenziale per quel tipo di abbigliamento sia l’utilizzazione del busto, che cambia completamente anche il modo di muoversi dell’attrice chiamata ad interpretare il personaggio.

 

D. E circa il trucco e la pettinatura?
R. Se sbagliano una testa è tutto rovinato… Piero Tosi diceva “Il cinema è un colletto” e ha perfettamente ragione….
Bisogna dare alla testa la dimensione giusta: se è una riproduzione meccanica della pettinatura dell’epoca si può sbagliare non rispettando le proporzioni del volto. E’ tutto un gioco di armonie… Se hai davanti un visetto piccolo devi dimensionare la pettinatura in modo giusto, perfetto.
Io ho lavorato con Aldo Signoretti, con lui mi sono trovata divinamente, è un parrucchiere bravissimo!
Come truccatore ho avuto un’ottima intesa con Otello Sisi, ad esempio dovevamo lavorare con un’attrice che aveva un occhio leggermente diverso dall’altro e lui, invece di correggere, mi chiese se poteva mantenere questa lieve differenza, che dava “carattere” al volto… ecco, questa è sensibilità….

 

D. Che tipo di lavoro fa nell’analizzare i personaggi?
R. Nel mio mestiere di costumista ho sempre cercato di interpretare il modo in cui il personaggio si potrebbe vestire in quell’occasione, in quel dato momento. Cerco cioè di farlo esprimere attraverso il vestito.
Autant-Lara diceva che se lo spettatore non capisce niente quando l’attore entra in scena, vuol dire che il costume è sbagliato….
Ma nel cinema di oggi questo non si fai più: ci sono gli sponsor e sono loro che scelgono quello che va bene… L’ultimo film risale al 1993.
Ricordo che in quegli anni fui chiamata per ideare i costumi per un Sandokan televisivo. Preparai ben 130 bozzetti, andai in India, ma poi non se ne fece più nulla.
Avevo tra l’altro chiesto la consulenza di Andrea Viotti per la documentazione sulle armi. Ho lavorato un’intera estate, 130 bozzetti, ho capito tutto sull’India, e tutto è sfumato….

 

D. Ci vuole parlare del lavoro per Fantaghirò?
R. Ho seguito entrambe le serie: Fantaghirò I e II. In realtà è stato un lavoro faticoso, le serie vennero girate in Slovacchia e nella Repubblica Ceca, con maestranze del luogo. Non potevo purtroppo fare affidamento su sarte italiane, ma per fortuna mi ero portata un sarto molto bravo, Romano Amidei. Avevo scelto le corazze da Rancati, ma risultò che costavano troppo in base al budget previsto e dunque si optò per armature reperite direttamente nell’ex Cecoslovacchia… Tuttavia è stato un lavoro per il quale ho avuto anni dopo un riconoscimento, nel 2009, il Premio Bandiera d’Argento a Cava de’ Tirreni.

 

D. Ci vuole dire qualcosa circa la sua esperienza come docente di costume al Csc?
R. Ho lavorato al Csc dal 1980 al 2003, sono entrata all’epoca di Giovanni Grazzini. Sono stata al Csc fino al 2003, dapprima come docente titolare, successivamente ho tenuto dei seminari. Alcuni miei allievi sono diventati costumisti importanti, ne ricordo alcuni: Giuseppe Avallone, Luigi Bonanno, Marina Roberti, Massimo Cantini Parrini, Valentina Monticelli.
E’ stata un’esperienza magnifica, che purtroppo rimpiango molto e che mi manca, perché il rapporto con i giovani è importantissimo, è un vero e proprio scambio reciproco!